A partire dalla Vita nuova, attraverso il Convivio e il De Vulgari Eloquentia, Dante ha meditato lungamente sulla questione del linguaggio e – dopo aver approfondito la sua riflessione – è giunto, con la Commedia, ad elaborare ed a mettere in pratica una teoria linguistica innovativa, basata sulla variabilità e sulla mutabilità delle lingue naturali, caratteristica che estende anche alla lingua di Adamo, il primo parlante.
I versi sulla lingua di Adamo, in Paradiso XXVI, vanno interpretati alla stregua di: «una sorta di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura».[1]
La variabilità e mutabilità delle lingue non è più una conseguenza della punizione babelica ma semplicemente un corollario naturale della loro essenza di prodotti liberi dell’attività razionale dell’uomo, tanto che la stessa protolingua di Adamo si è trasformata e spenta. Per cui quei versi, sempre con le parole di Contini, suonano come prosecuzione di un tema fondamentale dell’opera e della riflessione dantesca e cioè l’«agonismo del mutabile volgare all’immutabile gramatica».
[1] Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi, Torino1970, 343 (citato in Enciclopedia Dantesca, s.v. lingua, p. 662)